Discussione che mi sento di sottoscrivere in tutti gli interventi e quasi in ogni dettaglio...
Assistiamo a un generale degrado qualitativo di tutti i settori manifatturieri: vale per l'abbigliamento, per l'arredamento, per l'oggettistica. E anche per la componentistica non direttamente collegata ai prodotti ad alta "densità" tecnologica.
Per non parlare dell'artigianato, in via di estinzione.
Tutto ciò comporta anche la dispersione di competenze e culture preziose, a volte impossibili da recuperare.
Gli unici settori in cui possiamo rilevare luci e ombre sono quelli dell'alta tecnologia (informatica,
automotive, telecomunicazioni): luci derivanti – com’è ovvio - dall'incredibile e incessante crescita di funzioni e opportunità; ombre derivanti dall'obsolescenza programmata che affligge tali prodotti.
Questa osservazione fa sorgere in me una riflessione: mi sembra che l’andamento inversamente proporzionale - in termini di contenuti qualitativi - dei due settori, tecnologico e non tecnologico, sia collegato.
Ritengo cioè che
si sia instaurata una sorta di "dittatura tecnologica", per cui il parametro di giudizio di questo settore - qualità intesa soprattutto come innovazione - sia diventato un paradigma applicato come una camicia di forza ad altri settori in cui la densità tecnologica è inferiore, e quindi esistono "saperi" da conservare, "tecniche" tradizionali da custodire (che peraltro sono la sedimentazione di innovazioni precedenti!), prima ancora che "tecnologie" nuove da scoprire.
Insomma, l'ossessione per l'innovazione purchessia a discapito della qualità, la frenesia modaiola contrabbandata per "progresso", dipendono sì - come è stato ricordato - dall'affermarsi di un ciclo produttivo che punta alla massimizzazione del profitto basata sul consumismo e sulla sostituzione continua del prodotto, che quindi
deve essere scadente - nella prospettiva del produttore - per poter essere sostituibile.
Ma quell'ossessione e quella frenesia dipendono anche dall'imporsi, sulla scia dell'infatuazione tecnologica, dell'idea che vede nell'innovazione – vera o presunta - l'
unico valore, per cui il prodotto
può essere scadente anche nella prospettiva del consumatore, tanto si sente il bisogno di cambiarlo.
Intendiamoci, non sto sostenendo che l'innovazione non sia un fattore importante e che non debba essere applicata a tutti i settori.
Il problema nasce quando è assolutizzata, diventando un feticcio privo di reali contenuti e sostituita dal concetto di semplice “novità”: per cui in settori a basso contenuto tecnologico, che hanno tempi di innovazione diversi, la pretesa di cambiamento continuo non può essere soddisfatta da innovazioni (miglioramenti) reali ed è surrogata dalle degenerazioni (peggioramenti) delle mode passeggere.
Si potrebbe anche aggiungere che nelle famiglie si è diffusa una delega generale alle donne per l’acquisto dei beni di consumo non tecnologici (casa, cura della persona). E sappiamo quanto, nel gentil sesso, la propensione al cambiamento continuo sia più elevata…
L’orologeria meccanica (per non dimenticare la materia del nostro forum...), teoricamente, dovrebbe porsi a metà strada…
È un settore tecnologico, che dunque può beneficiare di innovazioni reali; ma è anche è un settore a tecnologia matura, e quindi non può avere gli stessi ritmi di innovazione di informatica ed elettronica.
Però l’orologeria paga lo scotto di una ormai sempre minore utilità funzionale, per cui è percepita (ed è probabilmente riuscita a tenersi in vita grazie a questa percezione) come semplice bene di lusso. E nei beni di lusso la “novità” può essere soddisfatta con molta più facilità – e maggiori profitti – dai cambiamenti di tipo modaiolo: dimensioni anabolizzate, forme e affissioni eccentriche, associazioni con eventi/personaggi improbabili…