Condivido per intero gli interventi precedenti, con un’unica perplessità su alcune note di ottimismo finale:
Credo che quando l'era delle fashion blogger e dei fashion blogger finirà, sommersa da tutta la marea di palle raccontate, potrà ritornare alla ribalta il vero "lavoro".
L'amore tutto italiano per il bello è qualcosa di connaturato alla stessa terra che ci culla e nel quale ognuno di noi vive senza accorgersene, e così inevitabilmente qualcuno che continua a perseguire gli ideali di bellezza da riscoprire nella tradizione esiste sempre e qualcun altro si trova ancora a voler iniziare a farlo.
(…) La nuova generazione di sarti - non più giovani cresciuti in bottega ed avviati all'arte dall'impossibilità di scegliere altra strada, ma ragazzi istruiti e laureati, che hanno scelto la via della sartoria scientemente - questo lo sa e per questo proseguirà la grande tradizione sartoriale del bel paese nel piccolo delle botteghe di paese o portandola in giro per il mondo globalizzato come valore distintivo al servizio di chi sarà capace di sapere cosa compra.
La nicchia, che continua ad esistere, è sempre più destinata ad essere presidiata in modo locale, puntuale, in scala sempre più ridotta. Il piccolo laboratorio artigiano, insomma. Che poi è ciò che in Italia sappiamo anche fare meglio, è ciò da cui tutto ha sempre avuto inizio.
Mi sembra di leggere, insomma, l’idea che il vessillo del bel vestire possa essere portato anche in futuro da una nicchia di amanti dello stile e della qualità, nonché da un pugno di nuovi artigiani consapevoli.
Io non sarei così sicuro dell’ineluttabilità di questo destino…
Oggi – per quello che posso dire di una realtà che ho iniziato a esplorare da qualche anno - i sarti in attività sono pochissimi (parziale eccezione è quella di Napoli).
In metropoli come Roma o Milano, abitate da
milioni di persone, se ne trova qualche decina. Di questi, la gran parte sono ottantenni…
Angelo esprime un ottimismo meno marcato, segnalando che può esistere un problema dal
lato dell’offerta, cioè della capacità della piccola bottega artigianale di stare sul mercato.
Io risalgo ancora più “a monte”, al
lato della domanda: può sopravvivere una “nicchia” (più o meno organizzata) se il mare che la alimenta è prosciugato?
Può resistere una cultura – sia pure elitaria - dell’abito maschile, se il mondo la ritiene superata?Qualche tempo fa conducevo una riflessione simile sugli orologi, rilevando che
ci può essere un vertice di eccellenza solo se poggia su una struttura con diversi livelli qualitativi.Grandi numeri complessivi di un settore significano grandi opportunità lavorative per i giovani interessati a diventare tecnici specializzati (con scuole di formazione specifiche), e quindi maggiori possibilità di selezionarne alcuni di elevatissima professionalità; ed altri che sappiano offrire un prodotto non di eccellenza, però a prezzi ragionevoli.
Grandi numeri significa industria dell’indotto in salute e capace di innovazione autonoma (per l’abbigliamento parliamo ovviamente dei tessuti).
Grandi numeri significa ampia cerchia di clienti che guardano con un certo interesse alla tipologia di prodotto. E quindi maggiori possibilità che un numero sufficiente di questi possa prima o poi alzare l’asticella delle proprie aspettative e orientarsi su prodotti di vera qualità.
Guardiamo però lo scenario attuale.
L’abito
da uomo tradizionale residua solo come “obbligo”: professionale (però in ambiti sempre più limitati) e cerimoniale (però con cerimonie sempre più rare, ed esposte a scelte di abbigliamento sempre più improvvisate e modaiole).
Coloro che vestono con uno stile classico “per scelta” sono sempre meno.
Ma, soprattutto,
quello che è oggetto di picconate sempre più decise è lo stesso immaginario maschile tradizionale, accusato di essere “sessista”, “inquinante” (assistiamo a polemiche sempre più insistenti contro il fumo, le carni rosse, le auto sportive), “rigido” (le nuove parole d'ordine sono il rigetto delle formalità e dell’autorità, l'esaltazione della “praticità” e della “disinvoltura”).
Le industrie della moda spingono sempre più lo stile androgino…
In questo scenario, è immaginabile che possano conservarsi e tramandarsi i “saperi” dell’abbigliamento maschile?
È vero che la moda, la spinta al consumismo commerciale, non può produrre nuovi stili di riferimento stabile, non può difendere la qualità (perché ciò è contro l’interesse di chi la impone).
Per cui lo stile classico – nell’abbigliamento, ma anche nell’arredamento, nell’oggettistica, nell’alimentazione… - permane quale riferimento di eleganza e di qualità.
Ma è anche vero che questo riferimento è sempre più sfumato, confuso, perché non può sopravvivere per inerzia.
L’unica speranza risiede, a mio avviso, in un rilancio
culturale, in una presa di coscienza.
Vale anche nell’incipiente “battaglia del Fosso di Helm” tra orologi meccanici e
smartwatches…