A me sembra che il discorso potrebbe prendere due direttrici.
1) La prima si interroga se il vestire "classico" - giacca e cravatta, con tutti i capi e gli accessori connessi a questo stile - sia "morto".
Io potrei dire, sulla scia di analisti senz'altro più autorevoli, che il classico è "morto" nel senso che non è più vitale, non è più paradigma universalmente accettato, cosicché non ha più la capacità di proporre nuovi stilemi.
Casomai "sopravvive", in quanto la sua crisi non è quella di uno stile, ma di una civiltà, che non ha saputo elaborare nuovi paradigmi di eleganza e di formalità.
Sopravvive, come scrivevo in precedenza, come obbligo professionale e cerimoniale, come riferimento - sia pure confuso, per coloro che non ne comprendono appieno il significato - di eleganza e di qualità.
Però questa sopravvivenza è sempre più precaria.
Infatti, finché c'è una vasta cerchia di persone che riconoscono la necessità di un certo stile (cioè finche in molti vestiranno in giacca e cravatta), sia pure accontentandosi delle sue declinazioni più scadenti e commerciali, ci sarà la possibilità che una cerchia più ristretta, crescendo e maturando, senta il bisogno di accedere a scelte più qualitative, alimentando la richiesta di capi di buona fattura e mantenendo così in vita imprese e artigiani che li realizzano.
Ma se la cerchia "allargata" si restringe troppo, allora anche la fonte che alimenta la cerchia ristretta (la nicchia di "intenditori" che sostiene la filiera produttiva di qualità) è destinata a prosciugarsi.
Quindi - in un futuro vicino - sempre meno capi classici (giacche, cravatte, cappotti, scarpe in cuoio, ecc.).
E sparizione del su-misura (già oggi, fuori dall'Italia, la camicia su misura quasi non esiste più), con trionfo incontrastato - per i pochi che ancora indosseranno quei capi - della confezione dozzinale (per qualità e
design).
Questa prima direttrice di discussione ha un
profilo culturale : riguarda - mi ripeto ancora - lo stile classico in senso esteso (non solo nell'abbigliamento), la sopravvivenza dell'immaginario maschile.
Forse un tema troppo vasto?
2) La seconda direttrice, assumendo una certa vitalità del vestire classico (nei suoi capi fondamentali), ha un
profilo focalizzato sulle prospettive di mercato di breve termine: riprenderà fiato un'attenzione più fedele allo stile classico, sia nelle linee sia nella qualità? In caso affermativo, questa ripresa sarà limitata al su-misura o potrà essere cavalcata anche dall'industria?
Forse in questo, come in altri campi, internet può avere una sua utilità.
E' vero che è uno strumento potentissimo, quasi totalizzante, per imporre il "pensiero unico" (che nell'abbigliamento è lo stile
casual ).
Ma è anche vero che offre quella possibilità di condivisione di informazioni che consente la sopravvivenza di piccole nicchie di pensiero (e stile) indipendente.
Oggi che non esiste più la tradizione familiare quale via principe per educare i giovani anche allo stile, c'è però la possibilità, per chi sentisse crescere in sé un desiderio di attenzione alla qualità e al buon gusto, di trovare informazioni, canali, contatti.
Sul versante dell'offerta, anche il sarto del piccolo paese, se sa adeguatamente pubblicizzarsi (e se lavora bene, ovviamente), può attrarre clienti da località distanti, senza bisogno di alzare la saracinesca a Savile Row.
A Giorgio che chiede quali aziende italiane siano sulla giusta strada, rispondo che - per il ragionamento sin qui condotto - dubito che una "ripresa" del buon gusto possa venire dall'industria.
Confido casomai negli artigiani più intelligenti e capaci di intercettare le richieste di una clientela esigente.
In ogni caso, non conoscendo io bene questo mercato (almeno per quanto riguarda l'abito), perché sono appunto focalizzato sulla dimensione artigianale, mi interessa molto conoscere l'analisi di Giorgio sullo stato di salute delle aziende italiane.
P.S.: sperando di non essere risultato ancora una volta troppo noioso...