Un breve cenno storico sull'industria dell'abito Italiano . Mi scuso per la lunghezza e per la poca scorrevolezza del mio incedere per iscritto....
Il mio nonno Severino che lavorava in fornace, quinta elementare, classe 1919 si faceva fare il vestito dal sarto. Ne aveva due, entrambi di panno di lana uno più leggero e uno più pesante. Li portava per andare a messa o per i funerali. Credo fossero dei primi anni 60 e andavano a sostituire un'altro abito di trent'anni prima. Me li ricordo ancora, fin verso il 1990 li ha portati. Questa è stata la normalità fino alla fine degli anni sessanta prima metà dei settanta, nella provincia Italiana.
Poi il capovolgimento totale, arrivano le industrie, l'urbanizzazione, la consapevolezza di avere tra le mani un salario che permetteva di fare certi acquisti che prima erano proibiti: l'auto, la lavatrice, la televisione, la casa nuova, il mobilio, la cucina componibile. Dietro tutto questo il fenomeno abbigliamento industriale e dopo gli stilisti.....Il Boom economico è stata la morte del sarto vero. Il bespoke Italiano è stato inventato dai Nazareno Fonticoli e Gaetano Savini, ma loro stavano nella città, servivano già gli attori, i personaggi del jet set, insomma, erano già non sarti in senso stretto, ma il capo era veramente di manifattura. Assieme a loro il distretto Mantovano , quello Marchigiano e D'Avenza, storia a parte , le cui vestigia traggono origine da un non precisato Signore Inglese. Poi, un gradino sotto Facis, Lebole...ricordate la pubblicità : " In Lebole è bello..." Questa è stata l'industria dell'abito maschile. Al Sud, Napoli, Calabria e Sicilia i sarti sono rimasti ancora un pco di più, ma anche lì ben presto il mito del Pizzaiolo che tornava al paesello con i soldi era una bella Giacca Armani ( alcuni non toglievano nemmeno l'etichetta sulla manica). Ecco, proprio il Buon Giorgio, croce e delizia del bel vestire all'Italiana e con lui tutti i grandi Stilisti. eccoci Signori, questi hanno distrutto l'abbigliamento maschile classico, nel bene e nel male. Capi che non erano più intelati ma biadesivati, fodere delle più modeste, bottoni di plastica, ma chissenefrega è di.........ma tanto è di.......e così tutti gli anni ottanta e novanta ce li siamo bevuti , assieme a Milano e all'amaro ramazzati. Ah dimenticavo, il fenomeno Yuppies, in controtendenza? No affatto, si parlava di ragazzotti di buona famiglia che amavano vestirsi come lui " l'Avvocato" o il suo uomo " LCDM, Luca Cordero di Montezemolo" ...niente di chè, una meteora tirata fuori dai giornali Capital. E intanto aziende nate sotto la cultura del bel vestito, sulla scia del Brioni e della rivoluzione industriale dei mitici anni sessanta, abiti comunque " di manifattura" non sapevano dove girarsi. Canali, Corneliani, Luigi Bianchi ( Ricordate il Marchio LUBIAM?), Lardini..ora non me ne vengono in mente altri. Boccheggiavano sull'orlo del precipizio alla metà degli anni 90. Alcuni producevano per i Valentino e altri Stilisti, altri no e morivano. Poi Via si riparte cogli anni 2000, all'insegna del sartoriale, ricordate il tutto impunturato, finto sartoriale di tanti bravi agenti di commercio, ricordate le Scarpe Branchini? o Alla Branchini? Ricordate quei collettoni a quattro bottoni? Ecco il neo sartoriale di oggi è nato lì.....
Il tuo "enciclopedico" post l'ho trovato molto interessante...
Riprendo anche il tuo post di apertura, nel quale scrivevi:
(...) fino a quando l'acquisto sarà dettato dal nome e non dalla sostanza non aspettiamoci grandi voli pindarci o aumenti di qualità. Sempre più mi accorgo, anche frequentando per lavoro il mondo dell'abbigliamento che è il cliente che si ostina con la sua poca cultura di prodotto a sentirsi sicuro nel porto dalle quiete acque del marchio, sospinto dai trend setter impegnai a fare innumerevoli marchette. Credo che quando l'era delle fashion blogger e dei fashion blogger finirà, sommersa da tutta la marea di palle raccontate, potrà ritornare alla ribalta il vero "lavoro". Per ora stanno chiudendo moltissime fabbriche e manifatture del buon vestire e calzare italiano.
La cultura del "marchio" non è in sé negativa.
Io apprezzo sempre di più l'artigianalità. Ma so bene - non scopro l'acqua calda - che non può costituire l'unica via da intraprendere.
Esistono settori merceologici, o prodotti specifici in ciascun settore, in cui la produzione industriale è necessaria, perché offre beni non disponibili in passato (in primo luogo i beni ad alto contenuto tecnologico, ovviamente).
Ed esistono settori o prodotti specifici in cui la produzione industriale è in ogni caso utile, perché offre un buon rapporto qualità/prezzo.
Qui l'artigianalità costituisce una vetta qualitativa, un punto d'arrivo.
Ebbene: laddove c'è industria, il marchio è necessario, perché fornisce una "garanzia" all'acquirente, il quale può non essere in grado - per propria incultura, ma anche per difficoltà oggettive - di "leggere" il prodotto. O di valutarne la durevolezza.
(D'altronde, anche nell'artigianato c'è un "marchio": è il "buon nome" dell'artigiano).
La questione è un'altra:
a che cosa è associato il "marchio"?A un'idea di qualità? ("Comprate i nostri prodotti, perché sapete che sono realizzati con i migliori materiali e le migliori tecniche, per cui garantiscono un'ottima resa e dureranno a lungo")?
Oppure a un'idea di "esclusività" e "moda"? ("Comprate i nostri prodotti, perché sapete che sono l'ultimo grido e sono gli stessi indossati dalla cantante XY o dallo sportivo YZ")?
Il cliente "si sente sicuro nel porto del marchio", certo, e al giorno d'oggi nel porto di marchi associati solo alla moda.
Questa domanda poco esigente, incolta, non stimola un'offerta di qualità.
Ma chi "costruisce" la cultura del cliente?
Venute meno le tradizioni familiari, è soprattutto la pubblicità (quella diretta degli spot e quella indiretta del
fashion system).
Di conseguenza,
possiamo senz'altro auspicare una "controinformazione" basata sulla qualità e sullo stile come valori.
Una controinformazione che sappia elevare la domanda, stimolando l'attenzione alla qualità: spiegando in che cosa consiste, perché è importante; ma anche indirizzando verso artigiani e - perché no - "marchi" industriali di qualità (a questo proposito, mi farebbe ovviamente piacere conoscere il parere di Giorgio sugli operatori che ritiene attualmente più validi nei diversi settori).
Una controinformazione che può essere veicolata da internet, innanzitutto, e magari da reti di appassionati e da qualche benemerito operatore dei
media.
Ma
dobbiamo anche auspicare che siano le stesse aziende - o alcune di esse - a investire nel marchio di qualità, ritagliandosi uno spazio in una nicchia che può essere senz'altro produttiva (e così mantenendola in vita), senza appiattirsi sul prodotto
mainstream.
"Investire" nel prodotto, quindi. Ma anche, in senso più esteso, focalizzare la comunicazione sulla valorizzazione di questo tipo di prodotto: ricercando accordi a questo scopo, consorziandosi.
Le aziende intelligenti, che ricordano di avere anche una responsabilità sociale e culturale (devono fare profitto, certo; ma il profitto si può fare in molti modi), sono quelle che sanno "creare" e rafforzare il proprio mercato, senza rifugiarsi nell'alibi del cliente che "non chiede più la qualità" (anche perché non sa dove trovarla!).