Aggiungo una puntata a questa avvincente “tenzone”, anche se ormai penso che siamo alla fase delle precisazioni.
Rispondo ad alcune annotazioni dell’ultimo intervento di Palombaro, partendo dai “convenevoli”…
Istaro, ripeto, non pensare che la mia sia una polemica … ma davvero siamo distanti e opposti nella nostra presa di posizione... poco importa... apprezzo spesso molti tuoi interventi … da appassionato mi sembra davvero strano non si riesca a convergere su un opinione comune in questo caso ma tant'è .. …
Non ho mai colto venature polemiche nei tuoi interventi, sempre pacati e argomentati.
E ti assicuro che quella venatura non c’è neanche nei miei. Quando ho scritto che una tesi (l’irrilevanza della questione leggibilità) è un “arrampicarsi sugli specchi”, intendevo che quella tesi mi sembrava forzata e – fino a quel momento - non adeguatamente argomentata. Non mi pare che la mia espressione fosse così pesante e certamente non intendevo attribuirle portata generale: non ti ritengo certo “uno che si arrampica sugli specchi” (figuriamoci!). Se ti ho “rattristato” per questo… me ne rattristo (sinceramente)!
Aggiungo però che non considero necessario o scontato “convergere su un’opinione comune”.
Anzi, se un’opinione non viene sostenuta per partito preso o per il gusto di aver ragione, il confronto tra punti di vista diversi, spesso, non solo può aiutare ad apprendere cose nuove, ma ci costringe anche ad affinare e mettere a fuoco quello che già conosciamo.
E può accadere che i punti di vista si avvicinino. Per esempio i nostri, sull’argomento di cui discutiamo, non mi sembrano così “distanti ed opposti”… Sarà una mia percezione ottimista!
Nel merito:
Tu sostieni di non capire come si faccia a sostenere che l'abitudine o la quotidianità faciliti le cose …
Non intendevo precisamente questo. Quando ho scritto che “la scomodità esiste e non dipende dall'abitudine”, intendevo che
in questo caso - la particolare affissione del datario di Oechslin - l’abitudine può
attenuare il fenomeno, ma non eliminarlo. Avevo premesso, infatti, che “bisognerà sempre fare i conti, che
col tempo saranno più veloci”…
Venendo poi al tuo
paragone con i numeri romani, personalmente non lo trovo azzeccato.
Con i numeri romani, infatti, noi impariamo ad associare quantità e simboli, esattamente come con i numeri arabi. Non a caso, negli orologi, troviamo spesso i numeri romani utilizzati al posto dei numeri arabi, con la stessa funzione…
Il procedimento di formazione di questi simboli richiede sì, in teoria, un’attività di addizione/sottrazione (che peraltro esiste anche nei numeri arabi dal 10 in poi: alle unità si premettono le decine, ed eventualmente le centinaia, le migliaia, ecc.).
Ma questa attività, questo conteggio, lo effettuiamo solo per quelle cifre con le quali non abbiamo dimestichezza (ad esempio, XLIV).
Per le cifre più comuni, invece, effettuiamo un’associazione immediata: quando leggiamo il simbolo XII, non facciamo il calcolo X + I + I, ma abbiamo imparato ad associare quel simbolo ad un numero, esattamente come il simbolo 12.
Tu stesso scrivi:
nell'Ochs, al posto del simbolo c'è una posizione e per il nostro cervello è la stessa cosa
Non è la stessa cosa. Casomai possiamo discutere se è simile la velocità con cui il cervello effettua due operazioni diverse.
Nel caso dell’associazione simbolo-numero, questa velocità dipende dalla consuetudine che abbiamo col simbolo.
Nel caso dell’associazione simbolo-posizione, dipende dalla contiguità delle posizioni.
Per quanto riguarda le posizioni, tu riproponi anche un
paragone con la lettura tradizionale dell’ora:
nessuno di noi legge l'orario grazie ai numeri segnati sul quadrante (che spesso non ci sono neppure) ma grazie alla posizione automatica degli indici o meglio ancora del settore corrispondente (in alcuni orologi non ci sono neppure gli indici di riferimento) ….
Quello che tu scrivi è vero, ma utilizzi ancora un paragone che non mi sembra appropriato.
L’immediata riconoscibilità dell’ora dipende, come ho cercato di illustrare in un intervento precedente, dal fatto che nell’affissione a 12 ore le posizioni di riferimento delle ore (anche in assenza di numeri o addirittura di indici) sono sufficientemente distanziate, in modo che le lancette che indicano i diversi orari abbiano un’angolazione sufficientemente diversa e, quindi, immediatamente riconoscibile.
La controprova viene dall’esempio – che avevo già riportato – degli orologi con affissione a 24 ore, nei quali (mi autocito
):
la suddivisione del quadrante in 24 sezioni fa sì che ogni indice sia troppo vicino all'altro, e il cervello non può intuitivamente riconoscere l'orario dalla semplice posizione della lancetta. Nell'indicazione di orari limitrofi l'angolazione delle lancette è troppo simile, per cui per capire l'orario bisogna per forza leggere il numero, avvicinando l'orologio agli occhi (se si tratta di un orologio da polso) o addirittura avvicinandosi fisicamente all'orologio (se è un orologio su campanile o da muro o da tavolo).
Esistono bellissimi orologi con affissione a 24 ore, ma sono chicche, non gli orologi che si indossano quotidianamente.
Nell’Ochs la suddivisione del quadrante è in 30 sezioni. Per facilitare la lettura, gli indici presenti raggruppano queste sezioni in insiemi di 5: per cui devo contare al massimo fino a 3 (sommando all’indice di riferimento precedente) o fino a 2 (sottraendo dall’indice successivo).
Considerato che i pallini sono simboli identici tra essi, distinti e riconoscibili solo per la posizione, di “conteggio” si tratta, per quanto veloce e quasi automatico possa diventare; per cui la questione si presenterebbe piuttosto nei termini: questo conteggio è così veloce da risultare alla fine immediato quanto la visualizzazione di un simbolo?
Tu fai presente che Dantzig sostiene il contrario, cioè che in un insieme molto piccolo non vi sarebbe conteggio.
Non voglio contraddire un insigne matematico
, anche perché non conosco nello specifico la teoria evocata; ma mi sembra di poter trovare conforto alla mia tesi ricorrendo a un
paragone che mi sembra l’unico davvero fedele e con i quali tutti abbiamo consuetudine: la scala dei minuti !La scala dei minuti è sessagesimale, non trigesimale; però è suddivisa in
insiemi di cinque, esattamente come le date dell’Ochs.
Ebbene: quando consultate l’orologio, voi riuscite a individuare istantaneamente il minuto esatto? Con la
stessa immediatezza con cui leggete la data (espressa in cifre)? Io – sarà un mio limite - no…
Quando do un’occhiata all’orario, questa (mia?) difficoltà non è un fastidio, perché di solito mi è utile conoscere l’ora approssimativa, non quella esatta.
Quando qualcuno mi chiede l’ora, però, già subentra una piccola esitazione, per cui fornisco sempre un’indicazione approssimativa: “Sono quasi le due”, “Sono le tre e venti passate”.
Insomma: quello che riscontro, oggettivamente, è una minore immediatezza nel leggere i minuti esatti – nonostante un’abitudine quarantennale! – rispetto alla lettura digitale della data (se qualcuno mi chiede che giorno è oggi, so rispondere subito senza esitazioni).
Tale minore immediatezza si riscontrerebbe anche con il sistema di rappresentazione della data degli Ochs, del tutto equivalente a quello comunemente utilizzato per i minuti.
Concludo ribadendo che la questione della
leggibilità della data non è, per me, un “difetto” o una lacuna di questi orologi (i difetti che ho trovato all’orologio sono altri, come ho già scritto). Anche perché la coerenza stilistica richiedeva probabilmente proprio questo: niente simboli numerici, solo rappresentazioni analogiche.
Per cui non mi sorprende che tu possa ritenere “questa tipologia di letture semplice ma velatamente sofisticata … affascinante …”.
Semplicemente, a me questo tipo di affissione non sembra comoda in un orologio da uso quotidiano.