La criminalità organizzata, il metodo e la tradizione mafiosa, la capacità di ergersi sopra il dedalo informe di leggi e cavilli aggirandoli a proprio uso e consumo, sono l'unica grande caratteristica italica ancora ben radicata nel nostro - disfatto - popolino.
Nata per ovviare alla mancanza e all'assenza concreta delle istituzioni all'epoca dell'avvicendamento fra Borboni e Savoia, dopo il brigantaggio, la mafia (con le sue corrispettive denominazioni regionali) è stata quella cultura che ha reso possibile un governo de facto in un posto nel quale lo Stato non arrivava. Così, invece che rivolgersi ad un prefetto (che non c'era), ad un tribunale (che non c'era), ad un'agenzia di controllo (che non c'era), ad un sindacato (che non c'era), il potere e l'autorità venivano tributate al notabile, al "don" del paese che si occupava di dirimere le questioni concrete che assillavano un popolo lasciato a se stesso, con un potere ed un'autorità che gli venivano riconosciuti e attribuiti non già attraverso un intricato modello di liste, nomine, candidature, proporzionale e sbarramento, bensì secondo il pratico e sicuro riconoscimento e rispetto popolare, guadagnato con il reale darsi e lavorare al bene della società.
Lungi da me voler scrivere un panegirico che sia da apologia della mafia, queste sono le ragioni indiscutibili che hanno instillato nelle nostre tradizioni le consuetudini che ci rendono un popolo mafioso nel DNA, perché la mafia non è un'azienda ma una cultura.
Tutti ben sappiamo come poi - per l'avidità propria dell'essere umano e per la fallibilità che gli è connaturata nella sua stessa essenza - qualcosa nato coi più nobili propositi sia finito ad occuparsi di droga, armi, prostituzione, contrabbando, assassini e rapimenti; ma al netto di ciò, le ragioni per le quali la mafia nasce, a fine '800, sono quelle succitate.
E ora guardatevi intorno: credete di vivere in uno stato di diritto? Credete di vivere in uno stato le cui istituzioni esistono per ordinare e per snellire la vita del cittadino? Credete di vivere in uno stato nel quale regole e giustizia siano realmente principio primo per il quale le istituzioni lavorano?
Io di stato non ne vedo, di garanti della giustizia non ne vedo, di giustizia non ne vedo.
Vedo una marmaglia informe di vermi, lombrichi e parassiti che tentano di strisciare (ormai neanche più subdolamente) fra i gangli delle istituzioni per farne fonte di guadagno; vedo lupi famelici attaccarsi ai più piccoli e tenaci ultimi brandelli di carne di un popolo che vedono solo come ossa da spolpare.
Vedo la stessa lontananza o tragica assenza dello stato, se non la sua totale avversità al proprio elettorato, che era a cavallo fra 8 e 900.
E allora faccio un semplice 2+2, e non posso non capire perché la mafia è il nuovo stato, perché i Casamonica sono i nuovi Cesari, perché l'Italia è diventata un letamaio e Roma ne è il "fiore all'occhiello".
Perché l'italiano medio è un ignorante, un gretto bifolco, uno sporco panzone che rifiuta il suo stesso essere, non sapendo più neanche la sua stessa lingua e non volendola imparare, "che tanto faccio ricorso che me l'ha detto l'amico dell'amico di Pino il carrozziere". Tutto, purché ci sia lo stadio la domenica.
Ed è in questo sostrato culturale indegno che la decennale mancanza di visione, impegno e programma politico ci ha condotti e trascinati, ed è in quest'humus che la mafia è libera di affondare le proprie radici, germogliare e crescere indisturbata come la più resistente gramigna.
Perché se duemila anni fa l'analogo del sindaco di Roma era Ottaviano Augusto, ad oggi il successore di Augusto è Ignazio Marino.
E che volete, che con Marino al Campidoglio e l'italiano ridotto peggio del peggiore Homer Simpson, i Casamonica non abbiano solo che da prosperare?
Io - e credo di non essere il solo - dico che siamo senza speranza.
Perché checchè si voti, quale che sia la legge elettorale, l'elettore medio è pur sempre peggio di Homer Simpson.
E morto un Marino, se ne farà un altro.